Ora che l’utero è mio, come lo gestisco? Intervista sulla GPA a Sara Catania Fichera

Pubblico qui alcune delle interviste e testimonianze di cui mi sono avvalsa per l’articolo pubblicato nel volume collettivo Utero in affitto o gravidanza per altri? Voci a confronto (Franco Angeli, 2017), a cura di Lidia Cirillo, AAVV.

Intervista a Sara Catania Fichera1

femminista, architetta, antispecista, vegetariana, dividua2, mamma affidataria e lunadiga3, singola e in coppia, una e tante. Mi piace usare le parole inventate da chi ha la fantasia e il coraggio di farlo per dare nome a ciò che prima era indicibile se non per negazione.

Quando Eleonora mi ha chiesto se volevo rispondere all’intervista sulla GPA, ho risposto di sì senza alcuna esitazione, accogliendo la sua proposta con piacere e gratitudine. Invece la sua richiesta di pubblicare il testo integrale dell’intervista sul suo blog mi ha bloccata per qualche mese. Una cosa infatti è consegnare alcuni pensieri alle pagine di un libro, altra cosa è mettere l’intervista on line: mi sentivo nuda sulla pubblica piazza! Può succedere a chi scrive “a partire da sé” – una pratica femminista da me acquisita da più di vent’anni – tuttavia per la prima volta ho provato disagio, perché attraverso il racconto di me ho parlato del mio attuale figlio in affido. Tuttavia sono convinta che la mia testimonianza possa essere di aiuto ad altre, altri, altr* e che possa creare modifiche migliorative nel senso comune di tutte le persone, quindi eccomi qua.

Chi sei e in quale contesto agisci?

Coabito e convivo con Bruno, il mio compagno, A., un bimbo affidato, due cani, due gatti e due tartarughe: questa è la mia attuale famiglia imprevista, con molte parentele che attraversano più specie, e senza alcun legame di sangue. Fin da quando ero bambina parlavo di me dicendomi femminista e fin dai tempi dell’università sono stata attiva in laboratori e collettivi politici misti e o separatisti, glbtqi, oggi diremmo queer, e femministi.

Negli anni ’90, al Politecnico di Milano sono stata una Pantera4 . In quegli anni imperava il Pensiero della differenza sessuale ma io sentivo che non mi apparteneva, non mi piaceva, e continuavo a cercare il mio femminismo; poi, il laboratorio di tesi Vanda, nato sull’onda degli allora women’s studies, mi diede l’occasione di fare una tesi che dava sostanza e senso al mio percorso universitario, rilegando più parti della mia persona; volevo essere un’architetta, volevo entrare tutta intera nella mia professione sperimentando un metodo progettuale diverso che mettesse al centro la qualità della relazione non solo con la committenza (soprattutto della committenza con lo spazio da abitare) ma anche con le maestranze: dare forma ai desideri altrui è stato fin ad ora lo scopo del mio lavoro.

La tesi di laurea fu inoltre l’occasione di incontrare un femminismo che mi somigliava: conoscere Emma Baeri, che è stata correlatrice della tesi, Luoghi politici e spazi urbani del femminismo catanese, è stato fondamentale per il mio percorso, un incontro nato asimmetrico ma velocemente trasformatosi in un laboratorio politico, fertile per entrambe,  un confronto condito con moltissime risate, ironia, autoironia, gioco: una relazione veramente libera, “radici e ali” per entrambe!

Dopo la tesi io e Emma abbiamo fatto insieme varie cose, tutte importanti, ricordo solo l’avventura più formativa e di lunga durata, l’inventariazione e il relativo deposito all’Archivio di Stato di Catania di tutto il materiale che il Coordinamento per l’Autodeterminazione della Donna aveva prodotto nei cinque anni della sua attività politica, tra il 1980 e il 1985, tra Catania e Comiso, intrecciando relazioni non solo con il femminismo nazionale ma anche con quello internazionale, dai campi di Greenham Common a quelli di Seneca Falls. Da questo lavoro infine è nato il volume Inventari della memoria 5: “un libro per me molto importante perché è un condensato di quello che una pratica femminista sa generare” come ne parla Emma, per la relazione feconda tra me, che allora ero una giovane donna, e lei, relazione che attraversa tutto il libro.

Da qualche anno inoltre siamo sorelle-compagne dello stesso cerchio catanese, prima Le Voltapagina, da maggio 2016 Collettivo RIVOLTApagina. Da quando abbiamo cambiato nome al gruppo, ciascuna di noi decide di scriverlo come vuole, dando al nome il significato che le somiglia di più, il primo segno di una grande libertà che parla della strana e variegata materia che compone il nostro cerchio, tutte donne diverse a partire dall’età anagrafica (la più piccola ha meno di 30 anni, la più grande più di 80), diverse esperienze di vita, di storie politiche, diversi desideri ed energie da spendere: a me piace dire che siamo un Coordinamento di femminismi. Ci incontriamo e ci scontriamo, ma continuiamo a porci domande, a dubitare, a parlare tra di noi – ascoltando il racconto dell’esperienza dell’altra – per capire il più possibile il punto di vista che non ci appartiene ma che complica il nostro, arricchendolo di nuove variabili impensate di cui è necessario tenere conto.

Ciascuna di noi incarna a tal punto un suo modo di essere femminista ma in relazione con le altre, che da qualche anno abbiamo abbandonato la pratica delle decisioni a maggioranza o all’unanimità, inaugurando un’altra pratica che vuole esprimere al meglio la nostra scelta di essere libere insieme: se non tutte siamo d’accordo saranno “Alcune di RIVOLTApagina”  a portare avanti quel progetto, fino a una soluzione estrema, quando “Una di RIVOLTApagina” procede da sola contando sul sostegno politico delle altre, comunque. Ad esempio, recentemente ho deciso di iscrivermi al neonascente tavolo NUDM “Terra, corpi, territori, antispecismo” e ho deciso di farlo a titolo personale perché le altre condividono ma non sentono la spinta, l’energia per partecipare.

Siamo inoltre convinte che parlare all’esterno a più voci senza una linea politica unitaria e compatta sia scardinante del senso comune di “gruppo politico” perché mette in evidenza le diversità in relazione, tutte legittime, che reclamano cittadinanza grazie all’autenticità di un discorso raccontato a partire dall’esperienza di ciascuna, “a partire da sé”.

In quali sedi di dibattito pubblico hai potuto farti un’idea sulla GPA?

Sulla gpa ho letto svariati articoli, tutti on line, dando soprattutto valore alle testimonianze di quelle che, per rispetto di un loro desiderio, chiamo “portatrici”, parola che accetto di usare solo perché la maggior parte di loro prende le distanze dall’altra parola di gran lunga più ingombrante e impegnativa: “mamma”. Nella mia esperienza la gravidanza è stato altro, mi sono sentita sì portatrice di vita, ma “potente” perché in una dimensione di scambio, quindi attiva, non un semplice contenitore.

Basta con l’immagine della “dolce attesa” che l’eteropatriarcato continua a propinarci, l’esperienza della dividualizzazione per me è stata altro: sentimenti contraddittori, belli e brutti, effetti collaterali, un vero corpo a corpo con me stessa e con l’altro corpo, inevitabilmente estraneo, un laboratorio in cui due soggette prendevano forma. Certamente “portavo” dentro di me un’altra vita ma non nella dimensione statica che la parola “portatrice” mi richiama e che mi suona di tentativo di autoespropriazione, e autocancellazione (è come se dicessero: se penso che è mia figlia-o certamente non posso donarla).

Tornando alla domanda iniziale, oltre a leggere articoli di “fazioni” contrastanti, ho dato molto valore alle testimonianze delle protagoniste, per cercare di capire cosa le induce a procreare per altre persone. E’ sottinteso che è necessario operare le dovute distinzioni tra USA, Ucraina e India. Perché, quando interviene l’evidente sfruttamento dei corpi, ebbene il discorso diventa un altro.

Qual è la tua posizione sulla GPA?

Se c’è una cosa che mi ha infastidita durante il relativo dibattito sui social on line, è stata l’atmosfera da campo di battaglia, uno scenario veramente deprimente che non fa altro che riprodurre il mondo al quale siamo abituate, perché il linguaggio e le modalità restano invariate: è una perdita enorme per tutte noi non rendersene conto, per questo continuo a pensare che il cambiamento debba avvenire innanzitutto dentro di sé. Personalmente ho molta fiducia nel metodo, perché se i modi della comunicazione tra femminismi non cambiano, il percorso sarà molto più faticoso.

Secondo me, sia per la gpa che in tutte le altre questioni, non ci si può muovere sul filo binario del pro o contro e della violenta pretesa di affermare il proprio punto di vista su tutte le altre. La questione specifica è molto delicata e penso che la scrittura di una legge in merito a questa pratica, ad esempio in Italia, non può avvenire dall’alto e dovrebbe prevedere il coinvolgimento, non tanto e non solo di figure giuridiche adeguate ma soprattutto delle varie figure coinvolte in un progetto simile a cominciare dalle “portatrici”.

Per come si configura in questo momento, la pratica della gpa mi appare innanzitutto ingiusta perché escludente, infatti solo pochissime persone privilegiate economicamente possono ricorrervi per soddisfare il personale desiderio genitoriale.

Un altro rischio, secondo me il più subdolo e pericoloso, insito in questa pratica che riproduce il paradigma eteropatriarcale, è la possibilità di trasmettere alla creatura “commissionata” il proprio codice genetico, è come dire che i figli sono tali solo in quanto “proprietà”, invece, a dispetto di ciò che pensa la cultura dominante, non credo che si possa essere figli solo attraverso un legame di sangue ma si è figli e o genitori solo nel momento in cui si desidera e si è capaci di vivere quella determinata relazione.

Mi sono sempre sentita in qualche modo mamma di tutte e tutti i 4zampe che hanno convissuto con me, mi sento mamma del piccolo A. perché di fatto ne svolgo il ruolo – anche se dovesse essere di passaggio, solo per un tempo determinato – perché di fatto lui si va affidando ogni giorno sempre di più a me, come farebbe ogni cucciolo di qualsiasi specie con chiunque si prenda cura di lui, lo segua nella crescita, ci giochi, lo coccoli, gli insegni strategie di sopravvivenza, e pretenda anche tempo e spazio per sé nonostante il suo amore per lui.

Stravolgere l’idea dell’individualismo proprietario nella relazione genitori-figli a me sembra potente e scardinante così come fare coesistere più figure genitoriali e più forme famiglia, accogliere l’esistenza di due mamme mi sembra fortemente trasformativo, così mi vado convincendo che in questo periodo la mia azione politica più importante sia proprio questa: un percorso possibile, civile e politico, che modifica i modi di guardarsi tra donne, non con sospetto ma con reciproca gratitudine. Io ad A. dico sempre che alla sua mamma genetica deve essere grato sia perché gli ha regalato la vita sia perché continua a cercarlo.

Questa mia affascinante esperienza di affido mi avvicina alla pratica della gpa ma anche me ne allontana: mi chiedo ad esempio per quale motivo si debba cancellare la mamma portatrice (che non coincide certamente con quella genetica) che non desiderava un figlio ma ha semplicemente venduto una parte del suo corpo ( quindi riesco a capire le ragioni della cancellazione), ma la “portatrice” afferma di sentire forte il desiderio di pro-creare per altre persone, e dal mio punto di vista “dona” una relazione di cui si è presa cura per 9 mesi: se ha voluto figliare per altri si è messa nelle condizioni di vivere quella relazione almeno per 9 mesi, per questo la chiamerei comunque mamma, mamma di transizione, mamma a tempo determinato ma mamma, rompendo finalmente con l’idea che di mamma ce ne è una sola come l’eteropatriarcato pretende, e ancor di più con l’idea che deve stare per sempre dentro un modello stabilito dall’alto: Oblativa, Enorme, Unica e Assoluta.

Personalmente ho scritto che avrei anche potuto scegliere di ricorrere alla gpa ma mantenendo in qualche forma (e oggi la tecnologia ce lo permette) la relazione della creatura con la mamma che l’avesse partorita. Continuo a pensare che una relazione si può condividere ma non donare alienandola arbitrariamente solo per il desiderio di una parte. Sono inoltre convinta che da soggetti culturali quali siamo ciascuna di noi abbia diritto di conoscere la persona che si è presa cura di noi nei primi 9 mesi di vita. La genetica invece proprio non mi interessa, anzi, penso che il problema sia proprio questa fissazione tutta patriarcale; io ho solo fatto doppie eterologhe nei miei tentativi di pma (doppia per una questione di parità tra me e il futuro papà) perché un figlio per me non è la “linea di sangue”.

Sono fortemente convinta che il proibizionismo non abbia mai prodotto nulla di buono, e che per salvarci dalle derive autoritarie penso sarebbe indispensabile legiferare in merito, anche per evitare ogni possibile forma di sfruttamento e per dare l’ultima parola alla portatrice, che deve poter cambiare idea fino all’ultimo momento. La sintesi della mia posizione complessa è quindi favorevole a partire dai racconti delle portatrici, fermo restando per me la possibilità (non l’obbligo) di mantenere la relazione tra la creatura e chi l’ha partorita.

Le tappe del dibattito dentro il tuo gruppo?

Nel cerchio se non ricordo male ne parlavamo già nell’autunno 2015 – eravamo ancora Le Voltapagina– sia a partire dal dibattito sul decreto Cirinnà sia perché io ero molto attiva in quel periodo e attenta a queste tematiche, quindi mi informavo molto e spedivo vari articoli alle mie compagne, e poi forse uscì proprio in quei mesi il primo appello di raccolta firme per vietare la pratica da parte di un gruppo di donne vicine al Pensiero della differenza e non ricordo di quali gruppi lesbici.

All’inizio la discussione cominciò a partire da quelle tra noi che sentivano più forte il bisogno di esprimere i propri pensieri in merito, poi lentamente tutte si lasciarono più o meno trascinare dal dibattito e decidemmo di cominciare a scriverne, ciascuna autonomamente e a partire da sé.

Ricordo che qualcuna obiettò “ma che senso ha? Non riusciremo mai a scrivere un documento collettivo su un argomento come questo, siamo troppo diverse”: anche su questo continuò la riflessione sul metodo “tutte-alcune-una”. Allora avevamo ancora un sito web e ci sembrò giusto far circolare i nostri pensieri proprio perché mettevano in evidenza più punti di vista sulla questione: in dicembre creammo “Camera con vista”[6] perché da una finestra panoramica è possibile scrutare il paesaggio attraverso molteplici angolazioni. Io ho scritto il mio pezzo ponendomi domande, il modo più giusto di procedere sempre, ma in questo caso di più.

Quali le posizioni emerse da parte di chi non vuole la messa al bando di questa pratica?

Tutte nel cerchio ci siamo dichiarate contrarie alla proibizione dall’alto della pratica della gpa – che non significa essere favorevoli alla gpa – quindi nessuna firmò alcun appello autoritario per vietarla. Tuttavia la maggior parte del cerchio non è favorevole a questa pratica.

Adesso siamo 11, a quei tempi eravamo 15, solo in 6 abbiamo lasciato traccia scritta pubblica dei nostri pensieri di allora, ricordo comunque con chiarezza che nelle discussioni dentro il cerchio, solo in 5, ciascuna di noi con i propri dubbi e proponendo i propri aggiustamenti, ci siamo dichiarate comunque favorevoli alla gpa.

Favorevoli tutte e 5 perché ci sembrava giusto ascoltare e accogliere le testimonianze delle portatrici, favorevoli alcune perché “se non potessi avere figli, la considererei una possibilità”, favorevoli anche perché è giusto dare risposte al desiderio genitoriale e una strada è necessario trovarla.

(Apro una parentesi: personalmente, se l’adozione fosse stata possibile per le persone single, non mi sarei imbarcata in faticosissime pratiche di pma, sono convinta che allo stato attuale sarebbe più giusto dare famiglia a chi è già nato, così come per me è più giusto accogliere un 4zampe del canile, o randagino, piuttosto che acquistarlo nel negozio. Anche se, grazie alla mia esperienza di affido, ho maturato l’idea che l’adozione, quanto la gpa, opera, per la il minore, una cancellazione arbitraria, violenta e controproducente con la famiglia di origine; difatti, molte e molti adottati, pur amando la famiglia che li ha fatti crescere, spesso, al compimento della maggiore età, vanno alla ricerca delle proprie origini. Un problema culturale probabilmente e quindi reale).

Nessuna tra noi procreerebbe per altre e tutte sentiamo l’attrito del nostro stesso discorso: come è possibile accettare che qualcuna possa fare per noi ciò che noi non faremmo mai per nessun’altra persona? Ma alcune donne affermano di sentire di poterlo fare e alcune di noi pensano sia giusto rispettare ciò che quelle donne affermano con tenacia. D’altra parte l’esperienza della maternità è fortemente soggettiva, e se una gravidanza non è desiderata penso che negare la relazione sia inevitabile e legittimo.

Si è già posto il problema di una presa di parola pubblica del gruppo? Cosa si è scelto di fare?

“Camera con vista” è stata la nostra presa di parola pubblica in merito all’argomento, il dibattito lo scorso anno fu poi interrotto da una crisi profonda del gruppo che ci ha condotte a cambiare addirittura il nostro nome, sono stati mesi faticosi, una fase del gruppo che chiamai “cerchio in cantiere” per dare conto della situazione, anche se poi, un cerchio come il nostro è sempre in cantiere. In luglio chiudemmo l’anno politico avendo rifondato il gruppo, anche se eravamo sempre le stesse ma senza più sito web e con tre compagne in meno, che in settembre diventarono quattro.

Quest’anno la nostra riflessione è partita dall’assurdità del ”Fertility day” e si è mossa soprattutto tra desiderio di essere madre e lunadiganza (così ci piace chiamare il sostantivo della scelta lunadiga, un nome allegro, liberamente “danzante”…sotto la luna…), la maggior parte di noi si sente entrambe le cose, solo la più piccola rivendica per sé un desiderio e una pratica totalmente lunadiga.

Tutte pensiamo che siano prigioni patriarcali sia la mistica del materno sia quella della lunadiganza, meglio indagare in ciascuna di noi la risonanza di entrambe queste parole, tra scelte culturalmente imposte e desideri nascosti, una ricerca sicuramente più destabilizzante che confinarsi in un’unica limitante e soffocante categoria.

Quest’anno, a partire dalla mia esperienza di affido, la nostra riflessione ci ha condotto oltre la gpa, ad esplorare altri territori, muovendoci tra conoscenza nata dall’esperienza viva e conoscenza disciplinare del diritto in merito all’istituto dell’adozione e dell’affido in Italia. Riflessioni che ne portano dentro altre a partire dalle forme di famiglia possibili e alla moltiplicazione delle figure genitoriali.

In questo mio percorso mi accompagna Charlotte Perkins Gilmann, con la sua Herland, con le sue teorie socio-economiche straordinarie, con la sua intuizione di portare il lavoro di cura fuori dalla casa, compresa la cura delle bambine la cui crescita è considerata una responsabilità collettiva, con le sue organizzazioni sociali orizzontali, comunitarie, con la solidarietà tra donne forti della propria autonomia, etc., messaggi che mi sembrano necessari proprio oggi: se si desse forma a quell’utopia, commisurandola al nostro presente, escludendo sfruttamento e colonizzazione dei corpi, compresi quelli non umani, la gpa potrebbe essere totalmente accolta e legittimata.

Allo stato attuale, per alcune, il desiderio di essere lunadighe è forte, se si trovano nelle condizioni di partorire una creatura non volendola crescere, basterebbe accettare di affidarla ad altra, altre mamme. Sì, se la maternità è la relazione, questa può nascere in qualsiasi momento se desiderata, quella stessa relazione che spesso manca nelle famiglie dette tradizionali tra genitori e figli genetici.

 

  1. 1. Da vari anni mi firmo con due cognomi, quello di mia madre e quello di mio padre, in ordine alfabetico.
  2. 2. Dividua è un neologismo inventato da Emma Baeri Parisi. La dividua è un’individua che può, se vuole, fare un’esperienza rivoluzionaria, preclusa al corpo chiuso dell’individuo maschio: può dividersi, un’esperienza piena di significati imprevisti, che nascono dalla prima relazione tra due, un’esperienza che attraversa e va oltre la biologia, che è radice di un’idea embrionale di cittadinanza, che si forma anche in relazione ai contesti storici, politici, culturali di colei che la vive ( Emma Baeri Parisi, 2013, Femminismo e cittadinanza, Il Poligrafo, Padova).
  3. 3. Lunadigas: parola che in sardo significa “luna storta” e indica le pecore che non vogliono fare figlie. Le registe – Marilisa Piga e Nicoletta Nesler – dell’omonimo web-documentario hanno scelto questa parola per dare nome alle donne che non vogliono riprodursi.
  4. 4. La Pantera: movimento di protesta contro la riforma delle università italiane del ministro socialista Ruberti.
  5. Emma Baeri e Sara Fichera (a cura di), 2001, Inventari della memoria, Franco Angeli.
  6. “Camera con vista” è visionabile sul blog https://rivoltapaginacatania.wordpress.com/

 

Pubblicato da EC

Giornalista pubblicista, bibliotecaria, web content editor, video-maker. Argomenti: diritto alla salute e salute riproduttiva, contrasto alla violenza di genere, studi di genere, cittadinanza attiva Instagram: @Eleonora_Cir

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