La Sinistra dopo le elezioni europee del 26 maggio

Riflessioni post-elettorali, con lo sguardo rivolto ai movimenti e ai partiti. Lotte sociali e rappresentanza istituzionale possono essere altrettanti snodi di una azione collettiva. Credo che sia possibile ed anzi necessario in una fase in cui la destra è al potere e governa non solo le istituzioni, ma anche i sentimenti.

Fare la campagna elettorale è stato, per me, uscire da una “zona di confort”, uscire cioè da una zona confortevole di linguaggi, pratiche abituali e contesti abituali. Disseminare e contaminare. Interrogare il tema della violenza di genere a partire dall’economia e viceversa. Osservare l’impatto (o il mancato impatto) dei temi del femminismo in contesti che percepiscono altre priorità.

“Andare avanti” vuol dire continuare ad abitare questo spazio un pelo scomodo e non del tutto confortevole. Penso che dobbiamo tutt* uscire dalle nostre zone di confort. Ogni luogo politico può diventare una “cuccia” in cui sentirsi rassicurata circa la propria identità – come in una sorta di nazionalismo di piccola scala, dove al posto della nazione c’è la propria associazione/rete/partito.

Penso che, se la destra continua a vincere, organizzare manifestazioni non mi basta più.

In questi giorni ho sentito tanto parlare di egemonia culturale, quella che la sinistra ha perso, che la destra ha conquistato e che la sinistra dovrebbe riconquistare. Non è un mio obiettivo. 

Credo, come Maria Galìndo, che stiamo vivendo un terremoto, una crisi dei sensi, cioè del senso. Io uso una parola in un modo e tu la intendi in un altro.

Camminiamo sui significati come sulle bucce di banana. Per questo penso che non sia proprio il momento di porsi il problema dell’egemonia culturale. Mi trovo più a mio agio nella prospettiva di sperimentare forme di co-gestione in cui poniamo il tema della sinistra come bene comune e in cui la formazione di una lista elettorale sia l’esito di un processo partecipativo il più possibile piacevole e appassionate in cui, molto umilmente, ciascuna e ciascuno senta di poterci mettere del suo.

I movimenti si rappresentano da soli. Cioè?

“I movimenti si rappresentano da soli”. E’ un argomento che sentiamo spesso in ambito movimentista. Che cosa significa? Credo che questo argomento esprima il bisogno di esprimersi come soggetto politico al di fuori della dinamica della rappresentanza politica, percepita come alienante, strumentale e riproduttrice di ceti privilegiati lontani dai bisogni concreti delle persone. Ma credo anche che in questo argomento vi sia un uso impreciso del verbo ‘rappresentare’. Penso anche che rifiutando la rappresentanza nutriamo i populismi. E penso che questo rifiuto sia esso stesso una forma di populismo quando è espresso nella forma assolutista di “tutti i partiti sono o nemici o falsi amici”, come ho sentito dire nella assemblea nazionale di Non una di meno del 2 giugno a Torino.

I movimenti si esprimono attraverso l’antagonismo, le lotte sociali, la produzione di contro-cultura. 

La performatività delle azioni di piazza o della comunicazione social è un tipo di rappresentazione che mira alla decostruzione e alla critica del potere; la performatività è anche costruttiva nella misura in cui genera nuove relazioni; la performance collettiva (fisica o virtuale) è una forma di soggettivazione politica. 

Le lotte sociali sono altrettante forme di soggettivazione politica e, quando efficaci, scuotono il potere istituzionale dall’abbandono e dall’indifferenza (che sono altrettante forme di controllo) ma non producono direttamente governo. Un esempio sono le esperienze di mutualismo, che sostituiscono l’azione dello Stato là dove esso è (sempre più) carente. Un altro esempio è lo sciopero globale femminista dell’8 marzo. Le lotte sociali rappresentano il mondo diverso e possibile mettendolo in atto nel presente.

Insisto sul fatto che ‘rappresentazione’ è diverso da ‘rappresentanza’, che invece è quel processo per cui le istanze dei soggetti politici diventano proposte di governo; la rappresentanza ha inevitabilmente a che fare con le istituzioni democratiche; rifiutare la rappresentanza significa quindi rifiutare la democrazia. Settori della sinistra lo fanno consapevolmente (ad esempio lo fa Lotta comunista). Ma ho la sensazione che questa consapevolezza non sia così diffusa. Ho la sensazione che molt* attivist* non prendano seriamente in considerazione il fatto che stanno buttando via il bambino con l’acqua sporca. Non penso che la democrazia debba essere considerata acriticamente come la migliore forma di convivenza possibile, ma osservo che non sempre chi si dichiara contro la rappresentanza (quindi anche contro la democrazia), ha un’idea chiara di che cosa mettere al suo posto, almeno idealmente.

Questo mi preoccupa molto e in questo vedo terreno fertile per avanza delle destre populiste. 

Nel frattempo, infatti, i governi ci governano con azioni di segno opposto da quelle che portiamo in piazza. Né le performance collettive né le lotte sociali della sinistra diffusa sembrano produrre, in questo momento, (ahi, lo devo dire) risultati tangibili quanto alla possibilità di realizzare il mondo in cui vorremmo vivere.

Faccio un esempio concreto: le mozioni antiabortiste presentate nei consigli comunali sono via via efficacemente respinte dalla mobilitazione performativa dei movimenti della società civile (la rappresentazione). Ma nulla viene fatto dalle istituzioni per rimuovere gli ostacoli nell’accesso all’aborto, per ridurre gli effetti dell’obiezione di coscienza, per diffondere la contraccezione e l’educazione sessuale. Le manifestazioni non scuotono chi detiene potere.

Per questo penso che i movimenti debbano porsi anche il problema della rappresentanza delle proprie istanze, accanto al problema della rappresentazione e della lotta sociale. Penso che dobbiamo occuparcene soprattutto in una fase in cui la destra di matrice nazionalista e fascista sta conquistando lo Stato a botte di elezioni democratiche.

Contesto il ragionamento per cui tutto ciò che concerne la prassi della democrazia rappresentativa debba essere sporco, contaminato, connesso ad un uso perverso del potere. Ma d’altra parte mi rifiuto di considerare i movimenti come bacino di voti e comprendo che ci sia diffidenza perché questa pratica l’abbiamo vissuta. Perciò desidero prendermi l’impegno per fare di tutto perché questo non avvenga.

Co-gestione della Sinistra

Rappresentazione, lotte sociali e rappresentanza istituzionale possono essere altrettanti snodi di una azione collettiva. Non credo che sia impossibile, solo perché qui ed ora non succede. In altri momenti della storia del nostro paese è successo.

Come? La risposta passa dalle pratiche, dai contenuti, soggetti e dalle relazioni. Linea di demarcazione, i contenuti già presenti nella sinistra diffusa: antifascismo, femminismo, ambientalismo, ferma opposizione al neo-liberismo.

PRATICHE.

Ruolo dei partiti: sarebbe utile che passassero dal ruolo di gestione a quello di co-gestione del processo di creazione delle liste elettorali. Aprire, accogliere, ascoltare come modalità di porsi.

Le e gli agenti della sinistra diffusa dovrebbero entrare nella co-gestione della sinistra rappresentativa. Anche lasciando fuori “il marchio” della propria rete, ma le singole attiviste secondo me dovrebbero entrarci in tante.

Forme della co-gestione: ce le studiamo insieme; abbiamo buone pratiche da condividere? Forme organizzative che hanno dato buoni frutti? Abbiamo esempi in Italia e all’estero? Riusciamo a tenere insieme il principio di piacere con quello di efficacia?

Se si andasse ad elezioni a settembre, secondo me sarebbe un errore candidare la sinistra alle elezioni per il Parlamento nazionale, perché non c’è tempo per un processo realmente partecipativo. 

Mentre le amministrative 2021 possono essere un buon laboratorio per la sperimentazione di pratiche di co-gestione tra sinistra diffusa e sinistra di rappresentanza. 

Le città sono un terreno congeniale per sperimentare la sinistra co-gestita, perché favoriscono relazioni di prossimità. Come ha notato Laura Quagliolo, attivista milanese di zona 4 dove la La Sinistra ha preso l’8%: “in quella zona agiscono più di 40 associazioni, che fanno di tutto, che si sporcano le mani e che sono sul territorio tutti i giorni: le persone ti conoscono, si fidano e ti danno il voto”.

Dobbiamo mettere in campo azioni concrete, che sono la nostra possibilità di uscire dalla crisi perché

  • ci rimettono dentro ai servizi territoriali, nei quartieri, lì dove è il nostro habitat naturale
  • ci connettono su una idea di mondo che si fa pratica e sciolgono le barriere ideologiche
  • costruiscono relazioni e le relazioni sono un tesoro prezioso nel mondo artificiale istituito dall’ingranaggio mass-media/social network 
  • nel lavoro a progetto sul territorio è più facile, forse, ricostruire il microclima adatto alla vita della “specie umana di sinistra”, cioè quella specie in cui il rapporto tra individuo e collettivo è vissuto ed agito come rapporto utile per scardinare forme di oppressione e di dominio; 
  • città come territorio dove nascono e vivono pratiche di mutualismo, troppo spesso non dialoganti tra loro
  • città terreno congeniale a sperimentare la co-gestione perché nella dimensione di piccola scala le alleanze di partito sono meno facilmente preda di “fusioni a freddo” e lo strumento della lista civica è più elastico rispetto a alla griglia imposta dal meccanismo elettorale bipolare che condiziona il quadro nazionale

SOGGETTI.

Le donne e i soggetti Lgbtq dovrebbero essere i soggetti da coinvolgere prioritariamente nella co-gestione. 

Le donne è una categoria enorme, imprecisa, c’è dentro di tutto. Dico “le donne” sapendo che sto semplificando – metto in conto l’accusa di praticare del binarismo di genere – ma semplifico a partire dai numeri. 

I numeri della violenza domestica, i numeri delle donne che perdono il lavoro quando diventano madri, il numero delle ore dedicate al lavoro di cura, il numero dei differenziali salariali, il numero di donne inoccupate o disoccupate. Il numero delle violentate, delle diffamate, delle stalkerizzate. Dietro a questi numeri ci sono vite, di cui la sinistra deve occuparsi prioritariamente. Dietro a questi numeri c’è lotta, c’è creatività, c’è resistenza, c’è presa di parola che la sinistra in co-gestione deve saper accogliere e rinforzare.

I numeri delle donne, attenzione, sono anche i numeri dell’astensionismo e sono anche i numeri del voto a destra. Il movimento riempie le piazze parlando della violenza di genere, e la destre riempie le urne, parlando di sicurezza per le donne.

I soggetti Lgbtq, perché tutto ciò che esce dai binari eterosessuali è antidoto al sessismo che alligna anche sul terreno della sinistra.

Le associazioni e i collettivi che praticano la difesa dei beni comuni, la difesa del territorio, l’agricoltura di piccola scala, forme locali di mutualismo, l’antifascismo

Il quinto stato. Uso esattamente queste parole riferendomi all’uso che ne fa Roberto Ciccarelli. “Il Quinto Stato è la nuova condizione della forza-lavoro”. La classe operaia non più quella classe operaia di epoca fordista. “Oggi non basta essere operai per appartenere alla classe operaia e non basta essere impiegati per essere borghesi”. “Il Quinto Stato non indica un soggetto predeterminato, ma una condizione basata sulla forza lavoro che cambia in base ad un movimento di inclusione/esclusione […] un processo che si confronta con ciò che si può fare, non ciò che si possiede o che manca”.

Pubblicato da EC

Giornalista pubblicista, bibliotecaria, web content editor, video-maker. Argomenti: diritto alla salute e salute riproduttiva, contrasto alla violenza di genere, studi di genere, cittadinanza attiva Instagram: @Eleonora_Cir

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