Quel matrimonio, che emozione, che vergogna!

#svegliaitalia. Prima di scendere in piazza la mia amica Emma Baeri ci ha inoltrato, sottoscrivendolo, questo articolo di Alessandro Gilioli che afferma: “se si scende in piazza per parlare di famiglia, è un brutto segno”. Sospiro e annuisco. Scrive più avanti: “la famiglia sta ai bisogni sociali come il pane sta a quelli alimentari”. Mhh, ok. “Punto a un giorno in cui nessuno scenda in piazza per nessuna famiglia: perché ciascuno avrà la sua, come gli pare” Sospiro di nuovo. Pure io.

Siamo al pane? E’ vero. “Sono qui per la reversibilità della pensione della mia compagna” ha detto ieri una donna tra una domanda e l’altra per il video di momi-z.  E’ pane, sì. E sputaci su! Lo stesso pane per il quale io e il mio compagno ci siamo sposati, infangando a vita la nostra “fedina” libertaria: l’amore lo nutriamo ogni giorno, goccia a goccia, e lo Stato non c’entra.
Mi ricordo di quella volta che mi sono sposata. Quando ho detto sì davanti al groppuscolo di parenti e amici, una dozzina in tutto e davanti ad una compagna-consigliera comunale in fascia tricolore. Ero emozionata quel giorno e in modo del tutto inatteso, investita mio malgrado dalla forza del rito con cui annunciavo alla comunità che quella persona io la amavo e con quella persona avrei condiviso la mia quotidianità. In fin dei conti sposarsi è un bel rito, ancorché ambiguo. Ambiguo, dai! Si tratta di denaro parlando d’amore.
Varrebbe la pena di rinnovarlo questo rito, non di abolirlo. Due o tre amiche fidate che decidessero di unire le proprie vite e i propri averi per condividere la quotidianità in vecchiaia, ad esempio, non avrebbero lo stesso piacere a celebrarlo?
Quel giorno infatti ero anche arrabbiata. Perché mi pareva di cedere, con quel sì, ad un ricatto. Ho ceduto un pezzetto della mia identità in cambio della reversibilità della pensione.  Matrimonio, “mater-munus”: regolazione giuridica della maternità, ovvero della capacità riproduttiva di una donna (cito a memoria dal dizionario etimologico). Orrore! La parola-fossile conserva intatta l’impronta di una millenaria oppressione.
E infatti non indosso l’anello, non esibisco i segni esteriori del mio matrimonio, non ne parlo volentieri.
Discreti nei festeggiamenti, ce ne siamo quasi vergognati. Non sarebbe stato così se avessimo potuto accedere a un patto civile di solidarietà – ai tempi di Prodi c’era un progetto di legge che li prevedeva anche per le formazioni sociali superiori a due, che bello!
Non siamo mica tutti uguali. Qualcuno va in brodo di giuggiole nel convolare a nozze. Io raggiungo picchi di esaltazione al momento di una conquista civile e sbrodolo di commozione ai cortei del 25 aprile.
Ma insomma. Le pari opportunità garantiscono appunto che ognuno possa esprimere la propria diversità senza esserne sfavorito. Ecco perché ieri ero in piazza.
Immagine di Naomi da https://www.flickr.com/photos/mariko1/8534868206/in/album-72157632930327429/

Pubblicato da EC

Giornalista pubblicista, bibliotecaria, web content editor, video-maker. Argomenti: diritto alla salute e salute riproduttiva, contrasto alla violenza di genere, studi di genere, cittadinanza attiva Instagram: @Eleonora_Cir

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