Human factor lab visto da me

Impressioni sensoriali e qualche ragionamento sulla responsabilità politica dopo Human factor lab e dopo la partecipazione di Nichi Vendola al laboratorio sui diritti civili.

Sabato pomeriggio ho partecipato ad alcuni momenti della conferenza di programma di Sel, invitata al laboratorio su sanità e diritti civili da Cathy La Torre, attivista GLBTQ e consigliera comunale per Sel a Bologna. Human factor lab si propone come “un laboratorio da cui (ri)partire mettendo in campo temi e organizzazione. Una piazza dove scambiare opinioni e progetti, aperta e partecipata, con al centro le persone, l’umano come fattore imprescindibile”. Come risultato positivo del laboratorio, mi porto l’entusiasmo di Cathy e il suo impegno a lavorare insieme sul contrasto all’obiezione di coscienza di struttura, che in Lombardia è favorito da una delibera regionale. Come impressione negativa, che Sel non sia immune dal vizio di autoreferenzialità.

Veniamo al Lab. Le prime impressioni sono, appunto, sensoriali. All’arrivo vengo risucchiata e sospinta da mulinelli di persone, che a gruppi o sciami occupano i due ampi saloni del Palazzo della Permanente. I laboratori coesistono nello stesso open space e si realizzano in tavoli rotondi con masse più o meno folte di gente intorno. L’assenza di microfoni impedisce di sentire al di là della prima fila. L’impressione è che l’arrivo di tanta gente sia inatteso, del tipo che avevano previsto 20 persone per gruppo mentre ne sono arrivate 5 volte tanto. Il che, se da un lato è positivo, agli effetti pratici non rende. Trascorro circa due ore vagolando da un laboratorio all’altro in cerca di un posto dove sentire qualcosa, frastornata dalla confusione. Poiché non posso sentire, osservo. Vedo volti protesi e interessati, colgo brandelli di animata discussione. Sembra palpabile un manifesto desiderio di politica. Poi, come accade in queste situazioni, trovo finalmente qualcuno della mia tribù con cui parlare che mi toglie dallo spaesamento e restituisce un senso alla mia presenza qui. Ciò che avviene ai margini dei convegni è interessante almeno quanto ciò che avviene al centro, se non di più.

Ma ecco che comincia il “mio” laboratorio, dove conquisto una prima fila in virtù dell’incarico di parlante ufficiale. Il mio compito in questa sede è di dare spunti per dibattito e proposte intorno al tema della applicazione della legge 194. Con delusione di Cathy – temo – invece che portare dati porto sostanzialmente questi argomenti:
1) che il contrasto all’obiezione di coscienza non può prescindere da un lavoro sociale e culturale intorno alla percezione sociale dell’aborto, che bisogna lavorare:
– all’eliminazione dello stigma che circonda la scelta di abortire, sulla vergogna e sul senso di colpa che inchiodano al silenzio le donne che interrompono volontariamente la gravidanza
– sulla responsabilizzazione maschile nella sessualità; sulla rabbia che quasi tutte le donne che hanno fatto un aborto manifestano verso l’irresponsabilità maschile;
2) che chi si impegna nella politica istituzionale ha
uno – il compito di cogliere le buone pratiche nate dal territorio e i suoi servizi e di metterle a sistema (cito ad esempio quella del San Carlo a Milano con i gruppi post-IVG)
due – il dovere di spiegare quando come e perché non è riuscita a raggiungere gli obiettivi su cui si è fatta eleggere e su cui ha chiesto la nostra delega. E qui ho in mente il governo di Vendola in Puglia, che rispetto alla 194 non ha spostato nulla. Non ha ridotto il numero di obiettori, non ha promulgato linee guida sulla Ru486, non ha ridotto la mobilità da un punto all’altro della Regione, e fatto salvo situazioni isolate – volute fortemente da operatrici e operatori che garantiscono la 194 – non ha risolto il problema politico per cui la maggioranza degli ospedali pubblici si sottraggono alla applicazione della legge.

Ed è mentre cerco di argomentare il secondo punto, nonostante la confusione e la gola indolenzita dal tentativo di tenere alto il volume, che compare il capo del partito.

In un trambusto di microfoni e telecamere arriva Nichi Vendola, a sorpresa, al nostro tavolo. Proprio in tempo per la mia domanda. Puoi spiegarmi perché è avvenuto? Sappiamo che c’è il problema del voto dei cattolici, senza cui non avevi “i numeri”. Sappiamo che non c’è un movimento di piazza intorno al tema della 194. Siamo consapevoli delle difficoltà ma allora perché non dichiararle, perché non dire apertamente quali sono gli ostacoli e quali sono le priorità? Perché dire che i diritti civili sono imprescindibili quando nei fatti sei pronto a scarificarli sull’altare della ragion di Stato? La delega, in democrazia, è reversibile – dico.

Quando parla, Vendola non dà risposte ma fa un comizio. Mi colpisce fortemente di sentire le identiche cose che ho sentito 8 anni fa, e poi più volte nel corso di questi anni. Io credo che dopo due mandati da governatore regionale non si possano dire le stesse cose. Che devi spiegare quando come e perché ti sei avvicinato ai tuoi obiettivi e dove hai fallito. Con le parole di Tsipras:

“Dobbiamo comprendere che è realmente rivoluzionario e radicale ciò che puoi fare per cambiare la vita delle persone e non dire cose che non potrai mai mettere in pratica. Paradossalmente, se sai che quello che stai promettendo non potrà mai essere realizzato […] diventa tutto più facile. La vera sfida è cercare di cambiare veramente le cose”.(1)

Sono delusa, perché sono elettrice di Sel. E sono infastidita da quel comizio. Forse sono proprio fuori dal mondo: intorno a me applaudono ad ogni paragrafo, se lo mangiano con gli occhi. Mentre io lo avrei preso per il bavero e lo avrei sbatacchiato “dimmi la verità, ti prego Nichi, almeno tu, io mi fidavo!” Sono patetica?

Non voglio abituarmi all’idea che il succo del potere sia nello sfuggire alle proprie responsabilità. Che la politica si riduca al tema delle alleanze. 

Ambivalenti le percezioni quando me ne vado. C’è la gioia di avere incontrato alcuni preziosi compagni e compagne di percorso. Insieme, una sensazione di rumore, di dispersione, di nostalgia di qualcosa.

(1)Teodoro Andreadis Synghellakis, Alexis Tsipras. La mia sinistra. Intervista con il leader di Syriza, Bordeaux, 2015

Pubblicato da EC

Giornalista pubblicista, bibliotecaria, web content editor, video-maker. Argomenti: diritto alla salute e salute riproduttiva, contrasto alla violenza di genere, studi di genere, cittadinanza attiva Instagram: @Eleonora_Cir

4 pensieri riguardo “Human factor lab visto da me

  1. Le tue domande erano legittime, pertinenti e fondamentali. Sono anche certa della passione e della competenza con cui hai argomentato sul tema. Il contesto molto probabilmente non era quello adatto per accogliere nel modo giusto le tue sollecitazioni. Mi chiederai se esiste un contesto adatto. Sono rari e solitamente i consessi molto partecipati non garantiscono la giusta concentrazione. Patetico è un certo modo di fare politica. E quella occasione mi ha dato tanto di “passerella” per dire le solite cose, farsi foto, non approdare a granché. Sulla 194 manca una sensibilità diffusa e permanente. Così sui diritti alla salute della donna in generale. Si lascia che sia e salvo qualche importante occasione, restano temi marginali, di nicchia. Che dire della Puglia? Da barese di nascita, anche se non vivo a Bari da circa 10 anni, ti posso dire che la situazione è abbastanza disastrosa. Ho ancora la mia famiglia lì e quando torno annuso l’aria che tira. La situazione era critica quando ero adolescente, oggi i problemi si sono acuiti. In ambito sanitario poi non ne parliamo. Anche io sono stata una entusiasta sostenitrice di Nichi all’inizio della sua esperienza di governatore in Puglia. Oggi ne vedo i limiti. Dichiarare che i problemi ci sono, esistono presuppone un coraggio e una onestà politiche estremamente rare. Ci piacerebbe un altro modo di fare politica e che non ci venga continuamente ripetuto il mantra del compromesso. Ormai l’unica regola è il compromesso, che vuole semplicemente dire che le cose si fanno solo se conviene.

  2. Grazie Eleonora (e grazie Simona).
    Le perplessità che entrambe riportate sono proprio quelle che questa volta mi hanno fatto dire ‘non vado’. Dopo due anni passati a combattere perché quel partito, che sentivo un po’ anche mio, cambiasse, perché certe dinamiche di puro potere fossero ricacciate in un angolo. La bruttissima (dal mio punto di vista) esperienza dei circoli esteri, lasciati nell’ambiguità e poi bollati come ‘seccatori’, le dinamiche poco chiare dello scorso congresso, l’irrilevanza assunta da qualsiasi proposta proveniente ‘dal basso’ mi hanno fatto desistere. Credo che finché non si riesce a togliere di mezzo certe persone (e non è una ‘rottamazione per la rottamazione’, ma perché sono ormai dentro una certa mentalità e un certo sistema) andremo da poche parti. Che tristezza.

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